Per cogliere il senso delle opere di misericordia corporali e spirituali, e non ridurle semplicemente ad una serie di “opere buone” pegno di un dono da ricevere nell’aldilà, o peggio ancora a tanti accessori al nostro vivere quotidiano da praticarsi a lato delle cose importanti, una sorta di “occupazione del tempo libero” insomma, è necessario fermare l’attenzione sul vocabolo “misericordia”, per accorgersi che fermo proprio non ci sta!

Se di misericordia si vuole cogliere la consistenza, è necessario andare al di là della definizione del dizionario, abituato a circoscrivere entro parametri molto precisi un nome, perchè in questo caso i limiti sembrano svolgere un pessimo servizio alla parola; il problema non è fissare misericordia in un concetto, pena ridurla ad una astrazione le cui opere apparirebbero ingenue applicazioni, aggiunte ad una umanità che potrebbe tranquillamente farne a meno.

Di misericordia infatti si dovrebbe parlare nel senso di una direzione, cioè di un indirizzo, di un cammino da compiere, “Una somma di passi che arrivano a cento” chioserebbe Niccolò Fabi, così da poter fare emergere lo spessore umano che la contraddistingue, come ha mostrato per altro il recente convegno ecclesiale di Firenze.

Un bicchiere d’acqua come un vestito, una lacrima come un panino, un film al cinema come una chiacchierata in treno, la spesa al supermercato come un caffè al bar, ma anche “il sorriso regalato a quel passante, il paragrafo di una pagina qualunque”, possono dare luogo alla misericordia che sempre abita corpi in relazione, per cui appena donata in realtà è nello stesso momento ricevuta. In genere si pensa sia “sempliciotta” e debba prima o poi cedere il passo ad una sorella che si crede maggiore e che vanta strane pretese, chiamata giustizia, la cui funzione sarebbe disciplinare e rafforzare il principio “Non per carità, ma per giustizia!” a fronte di diritti negati.

No, la giustizia cammina, ma la misericordia sta sempre un passo avanti: sua caratteristica è aprire una via, spalancare una porta perché attratta da un orizzonte di bene che rigenera la nostra umanità anche quando pare impossibile, e la invita a partecipare con fantasia e creatività alla bellezza. Cos’è opera di misericordia se non un esercizio in cui fare emergere il buono e il bello perfino là dove sembra assente? Nel carcerato ad esempio o in una “persona molesta”, l’emersione del bene pare impraticabile; il riscatto invece, può avvenire in un eccesso di misericordia, in un “gesto in-giusto” che dal di dentro della giustizia è capace di intravedere nell’altro un tratto fecondo, così da poter gettare il seme dell’opera di misericordia, creando le premesse per una buona ri-generazione.

È curioso notare come non vi sia rapporto diretto tra i comandamenti e le opere di misericordia, ed è forse questo uno dei motivi della loro “sfortuna”: se del decalogo è ancora probabile trovare credenti che ne ricordino almeno la maggioranza dei temi, certamente non può dirsi altrettanto delle 14 azioni. In realtà, proprio perché la misericordia eccede la giustizia, così tante opere stanno a dirci che possiamo prendere direzioni sbagliate nella nostra vita non solo trasgredendo alle istruzioni di Dio, ma anche tralasciando di fare il bene, cioè rimanendo insensibili all’altro che incontriamo; senza farci toccare, tenendolo a distanza, impermeabili al suo sguardo e alla sua parola. Conversione sotto questo profilo, significa cambiare davvero direzione, e mettersi in sintonia con lo stile della misericordia che in almeno 7 + 7 proposte stuzzica la nostra umanità decentrandola da se stessa.

In questo senso il linguaggio consolidato dalla tradizione, necessiterebbe di una adeguata traduzione al fine di non sminuire la reale portata delle opere e farle apparire “oggetti da museo”, piuttosto renderne possibile l’azzardo con creatività e passione

Per esempio “seppellire i morti”, potrebbe tradursi nella cura delle persone in lutto, attraverso percorsi di accompagnamento e sostegno; “consolare gli afflitti” potrebbe interpretarsi come l’occasione per creare spazi aggregativi e vitali nelle nostre comunità cristiane a fronte del fallimento di una relazione; “alloggiare i pellegrini” potrebbe divenire l’occasione per condividere uno spazio nelle nostre case con chi una casa non l’ha.

E poi ancora: “vestire gli ignudi” potrebbe essere un motivo per valutare il volume dei nostri armadi, rinunciare a nuovi acquisti prima di averne effettivamente bisogno; “insegnare agli ignoranti” potrebbe essere la buona occasione per noi adulti di riscoprire le ragioni della nostra fede, che a volte non riceve più alimento dal tempo del catechismo, così da appassionarsene; “ammonire i peccatori” potrebbe essere l’occasione per riscoprire il volto di una Chiesa impegnata a superare le costanti tentazioni del fratello maggiore e degli operai gelosi, ma capace di fare la “festa del perdono e della differenza”.

Sono solo appunti, pensieri frammentari che necessiterebbero di una adeguata sistemazione; non troppa forse, il bello delle opere di misericordia infatti è proprio questo, crearci un po’ di scompiglio, metterci in movimento, offrirci una direzione per accorgerci che alla fin fine abbiamo parlato di “Una somma di piccole cose”, senza le quali però saremmo un po’ meno uomini, un po’ meno donne.

Paolo Tassinari