La conclusione dell’itinerario autunnale, è sempre occasione di riflessione per coloro che hanno preso parte alle esperienze dei laboratori, alla celebrazione creativa di Avvento e alle cene in amicizia. Tra le lettere arrivate, ne pubblichiamo 2 che mettono in campo il rapporto tra la storia personale di chi scrive, e quello che si è attivato dopo l’incontro col progetto diocesano.

 

Pensando a cosa portare per la chiusura di questa serie di incontri, ho pensato che l’unica cosa che sono capace di fare è raccontare perchè ho deciso di parteciparvi e che cosa mi porto a casa.
Io sono separato dal 2012, e il fatto è avvenuto non per mia scelta, anche se sicuramente ho responsabilità oggettive nella fine del mio matrimonio.
Il tutto è successo dopo 29 anni di matrimonio e una intera vita vissuta per costruire la mia famiglia, fatiche e sacrifici insieme a gioie e serenità, con il dono di tre stupendi figli. Inoltre, un’intera vita vissuta dentro un percorso di fede mio e di mia moglie, comprese responsabilità diocesane.

Una famiglia all’apparenza perfetta e invidiata da molti, secondo i canoni che per anni sono stati il mio punto di riferimento, una casa che era sempre aperta a chiunque, era raro che non si fermasse qualche amico a cena. Io sapevo sempre cosa era giusto e sbagliato e non mi risparmiavo mai “consigli” a chi li chiedeva e a chi era in difficoltà.

Ma tutto questo non è bastato e il terremoto ha colpito anche noi, distruggendo tutto quello che era stato costruito. Qualche tempo fa, un pò suscitando il malumore di alcuni di voi, dissi che io mi sentivo “fregato” da Dio. Perchè mi sentivo come uno a cui è stato tolto tutto, compresa la speranza di poter ricominciare. Se fossi rimasto vedovo, avrei potuto pensare di ricostruire un giorno una famiglia, invece così come stanno le cose, secondo quanto per anni mi è stato insegnato, io rimanevo sposato e non mi era consentito avere altre relazioni, perchè sarei stato un adultero.

Quindi, mi sentivo solo, senza casa, senza soldi, la maggioranza degli amici spariti e senza la possibilità di ricominciare. E la cosa che più desideravo era essere abbracciato, amato, perchè sentirsi buttato nel cassonetto dell’immondizia aveva distrutto la fiducia che riponevo nelle mie capacità. Tutto andava storto e anche il mio lavoro ne risentiva, non riuscivo a fare niente. Se non fosse stato per la presenza dei miei figli, credo che avrei ceduto alla tentazione di finirla una volta per sempre, non mi vergogno più di dirlo. Dentro di me l’inquietudine non mi lasciava mai pace e ho cominciato a cercare ovunque qualcosa che mi aiutasse a ripartire, e ho cominciato anche a camminare, letteralmente. Nel 2015 ho iniziato il Cammino di Santiago, ma non l’ho ancora concluso, un infortunio mi ha fermato dopo 600 chilometri. L’inverno successivo ho camminato altri 200 chilometri nel deserto del Sahara. Sono stati quattro anni di tentativi, speranze, delusioni, fatiche enormi, errori e miracoli.

Quest’anno, con molto timore, ho accompagnato V., la mia figlia più grande, all’altare. Potete immaginarvi come mi sentivo. Io, padre separato, che accompagno mia figlia alla sua promessa davanti a Dio che recita: “prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.” Una promessa che per me era fallita e rappresentava la fine di tutti i miei sogni. Ma sono riuscito a dirle che, in ogni caso, qualunque fosse stato il destino, valeva la pena di rischiare tutto, perchè lei stessa e i suoi fratelli erano la testimonianza che ne valeva la pena. E tutto il bene che ne veniva fuori era incancellabile, anche se in tanti momenti non si riusciva a vederlo.

Un giorno, casualmente e un pò distrattamente, leggo dell’iniziativa della diocesi di Fossano. Ma la dimentico presto, fino a che la notizia della famosa telefonata del Papa a Paolo mi ha riportato alla memoria quel fatto. Allora cerco Paolo, e aspetto con impazienza che riparta una nuova serie di incontri, sono curioso, voglio capire cosa c’è di nuovo. Quando mi comunica la partenza degli incontri, io avevo deciso di ripartire per Santiago, e quindi avrei probabilmente saltato i primi due, ma il nipotino “dispettoso”, dopo la nascita del quale sarei partito, ha deciso di ritardare la sua venuta e mi ha quindi costretto a rimandare alla prossima primavera. Per cui ho iniziato questo percorso delle serate di laboratorio.

Il primo incontro è stato duro, mi sono un pò sentito come alle riunioni degli alcolisti anonimi che si vedono nei film. Ma all’uscita di quel primo incontro c’era dentro di me il desiderio di continuare, confidando anche nelle prime parole di Paolo: “fate tutto il percorso…” Così ho scoperto persone che vivono una condizione simile alla mia e che non si sono arrese, che vogliono capire, ricominciare, scoprire che cosa il futuro riserva ancora.

Tempo fa pensavo che l’unica forma possibile per la mia felicità fosse quella di incontrare una donna da amare e che mi amasse, con la quale condividere la mia vita. Questo desiderio rimane in me, ma ho cominciato a capire che la felicità è poter ricominciare ogni giorno, ogni mattino, accogliendo quello che accade come una possibilità di vivere fino in fondo ogni attimo, ogni incontro, per gustare la vita, per costruire me stesso, per riconoscere la bellezza della vita, per (per chi crede) compiere il proprio destino buono voluto da Dio. Senza questo, non c’è donna o altra felicità che possa rispondere al mio bisogno di significato e non c’è rapporto che si possa costruire senza questa “fame” di significato.

Per cominciare a capirlo mi ci sono voluti chilometri e tempo. Ci siete voluti voi, amici, che ho potuto incontrare, ci sono voluti Paolo e Silvia che hanno rischiato in questo progetto, e c’è voluta una ferita, senza la quale è difficile desiderare. Tempo fa Silvia ci ha chiesto quali erano le cose che avremmo voluto fare, io risposi solo con dei desideri. Oggi so che ciò che invece voglio fare è concludere il mio cammino verso Santiago la prossima primavera e, prima di tutto, raccontare ad altri il lavoro fatto qui con la speranza che si possa ripetere per altri lì dove vivo, perchè questa speranza possa essere per tutti.

Ciao Paolo, sono G. B. e mi è venuta voglia di dialogare con te.
Su cosa: esattamente non lo so. Spero che, digitando parole in ordine sparso, la razionalità concretizzi i pensieri. Anche l’altra sera, a cena, ho sentito storie che tempo fa leggevo solo sui quotidiani. Ho “toccato con mano” che tanta gente chiede solo un gesto gentile per colmare il bisogno, la ricerca di affetto. Perché succede questo? Perché amare sta diventando sempre più difficile.

Nel mio stato attuale, sono convinto che amare appartenga alla sfera dell’uomo/donna. Amare che non è solo l’affetto verso un’altra persona, ma anche verso Nostro Signore, praticando la Sua parola quotidianamente, nei confronti di chi ha meno di noi, ecc. Anche nelle serate precedenti, alle volte, avevo voglia di alzarmi e abbracciare chi stava comunicando le sue pene. Ascoltare, pensare, ripensare, mi ha fatto sentire meno “vittima” di un torto che non ho cercato di sollecitare, il divorzio. Questa “condivisione” mi ha dato un poco di serenità e convinzione che posso e sono in grado di amare. Ho capito che questa legittima aspettativa non deve nascondere le altre possibilità di trasmettere ciò di cui sono capace, poco o tanto che sia non importa, purché sia fatto con il cuore.

Sto cercando di entrare a far di qualche gruppo che assiste le persone con disabilità, forse perché questo mi porta più vicino alla defunta sorella pochi anni fa. Forse anche questo è ricerca di amore, che spesso ho “raccolto” da chi avevo davanti quando ero da mia sorella e compagne. Forse, anzi, certamente, sono fortunato nel nutrire questo desiderio. Probabilmente è una forma di amore verso me stesso, sperando che non sia solo egoismo.

Diciamo che il Gruppo ha consolidato queste mie intenzioni. Ora mi piace pensare che sia la ricerca della serenità attraverso il mio impegno. Per il resto si vedrà. Ecco. Volevo esternare questi pensieri. Ti ringrazio dell’attenzione.